Aires de Libertad

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      Mensaje por Maria Lua 25.03.23 9:51

      CANTO XXVII



      [Canto XXVII, dove tratta di que' medesimi aguatatori e falsi
      consiglieri d'inganni in persona del conte Guido da Montefeltro.]



      Già era dritta in sù la fiamma e queta
      per non dir più, e già da noi sen gia
      con la licenza del dolce poeta,
      quand' un'altra, che dietro a lei venìa,
      ne fece volger li occhi a la sua cima
      per un confuso suon che fuor n'uscia.
      Come 'l bue cicilian che mugghiò prima
      col pianto di colui, e ciò fu dritto,
      che l'avea temperato con sua lima,
      mugghiava con la voce de l'afflitto,
      sì che, con tutto che fosse di rame,
      pur el pareva dal dolor trafitto;
      così, per non aver via né forame
      dal principio nel foco, in suo linguaggio
      si convertïan le parole grame.
      Ma poscia ch'ebber colto lor vïaggio
      su per la punta, dandole quel guizzo
      che dato avea la lingua in lor passaggio,
      udimmo dire: «O tu a cu' io drizzo
      la voce e che parlavi mo lombardo,
      dicendo "Istra ten va, più non t'adizzo",
      perch' io sia giunto forse alquanto tardo,
      non t'incresca restare a parlar meco;
      vedi che non incresce a me, e ardo!
      Se tu pur mo in questo mondo cieco
      caduto se' di quella dolce terra
      latina ond' io mia colpa tutta reco,
      dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
      ch'io fui d'i monti là intra Orbino
      e 'l giogo di che Tever si diserra».
      Io era in giuso ancora attento e chino,
      quando il mio duca mi tentò di costa,
      dicendo: «Parla tu; questi è latino».
      E io, ch'avea già pronta la risposta,
      sanza indugio a parlare incominciai:
      «O anima che se' là giù nascosta,
      Romagna tua non è, e non fu mai,
      sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni;
      ma 'n palese nessuna or vi lasciai.
      Ravenna sta come stata è molt' anni:
      l'aguglia da Polenta la si cova,
      sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni.
      La terra che fé già la lunga prova
      e di Franceschi sanguinoso mucchio,
      sotto le branche verdi si ritrova.
      E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,
      che fecer di Montagna il mal governo,
      là dove soglion fan d'i denti succhio.
      Le città di Lamone e di Santerno
      conduce il lïoncel dal nido bianco,
      che muta parte da la state al verno.
      E quella cu' il Savio bagna il fianco,
      così com' ella sie' tra 'l piano e 'l monte,
      tra tirannia si vive e stato franco.
      Ora chi se', ti priego che ne conte;
      non esser duro più ch'altri sia stato,
      se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte».
      Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato
      al modo suo, l'aguta punta mosse
      di qua, di là, e poi diè cotal fiato:
      «S'i' credesse che mia risposta fosse
      a persona che mai tornasse al mondo,
      questa fiamma staria sanza più scosse;
      ma però che già mai di questo fondo
      non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero,
      sanza tema d'infamia ti rispondo.
      Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero,
      credendomi, sì cinto, fare ammenda;
      e certo il creder mio venìa intero,
      se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
      che mi rimise ne le prime colpe;
      e come e quare, voglio che m'intenda.
      Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe
      che la madre mi diè, l'opere mie
      non furon leonine, ma di volpe.
      Li accorgimenti e le coperte vie
      io seppi tutte, e sì menai lor arte,
      ch'al fine de la terra il suono uscie.
      Quando mi vidi giunto in quella parte
      di mia etade ove ciascun dovrebbe
      calar le vele e raccoglier le sarte,
      ciò che pria mi piacëa, allor m'increbbe,
      e pentuto e confesso mi rendei;
      ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
      Lo principe d'i novi Farisei,
      avendo guerra presso a Laterano,
      e non con Saracin né con Giudei,
      ché ciascun suo nimico era Cristiano,
      e nessun era stato a vincer Acri
      né mercatante in terra di Soldano,
      né sommo officio né ordini sacri
      guardò in sé, né in me quel capestro
      che solea fare i suoi cinti più macri.
      Ma come Costantin chiese Silvestro
      d'entro Siratti a guerir de la lebbre,
      così mi chiese questi per maestro
      a guerir de la sua superba febbre;
      domandommi consiglio, e io tacetti
      perché le sue parole parver ebbre.
      E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti;
      finor t'assolvo, e tu m'insegna fare
      sì come Penestrino in terra getti.
      Lo ciel poss' io serrare e diserrare,
      come tu sai; però son due le chiavi
      che 'l mio antecessor non ebbe care".
      Allor mi pinser li argomenti gravi
      là 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio,
      e dissi: "Padre, da che tu mi lavi
      di quel peccato ov' io mo cader deggio,
      lunga promessa con l'attender corto
      ti farà trïunfar ne l'alto seggio".
      Francesco venne poi, com' io fu' morto,
      per me; ma un d'i neri cherubini
      li disse: "Non portar: non mi far torto.
      Venir se ne dee giù tra ' miei meschini
      perché diede 'l consiglio frodolente,
      dal quale in qua stato li sono a' crini;
      ch'assolver non si può chi non si pente,
      né pentere e volere insieme puossi
      per la contradizion che nol consente".
      Oh me dolente! come mi riscossi
      quando mi prese dicendomi: "Forse
      tu non pensavi ch'io löico fossi!".
      A Minòs mi portò; e quelli attorse
      otto volte la coda al dosso duro;
      e poi che per gran rabbia la si morse,
      disse: "Questi è d'i rei del foco furo";
      per ch'io là dove vedi son perduto,
      e sì vestito, andando, mi rancuro».
      Quand' elli ebbe 'l suo dir così compiuto,
      la fiamma dolorando si partio,
      torcendo e dibattendo 'l corno aguto.
      Noi passamm' oltre, e io e 'l duca mio,
      su per lo scoglio infino in su l'altr' arco
      che cuopre 'l fosso in che si paga il fio
      a quei che scommettendo acquistan carCO




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      "Ser como un verso volando
      o un ciego soñando
      y en ese vuelo y en ese sueño
      compartir contigo sol y luna,
      siendo guardián en tu cielo
      y tren de tus ilusiones."
      (Hánjel)





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      Mensaje por Maria Lua 25.03.23 9:56

      CAKTO VIGESIMOSETIMO


      CIRCULO OCTAVO: FRAUDE
      ARO OCTAVO: CONSEJEROS FRAUDULENTOS
      GUIDO DE MONTBFEDTKO, PAPA SEDUCTOR

      Continuación del cerco octavo. Otra llama animada. Dialogo de
      Dante con el conde Guido de Montefeltro sobre el estado político
      de la Romana. Guido de Montefeltro hace relación de su vida y
      del consejo que din a Bonifacio bajo previa absolución, que fué la
      causa de su condenación. Discusión casuística entre san Brancisco
      y un ángel negro. Las almas condenadas y ¡os cuerpos vivos.


      Dejó de hablar la llama enhiesta y quieta,
      y prosiguió, girando por su vía
      con venia del dulcísimo poeta,
      cuando otra llama que a él se dirigía,
      me hizo volver los ojos a su altura,
      por confuso rumor que despedía.
      El siciliano toro dio tortura,
      como era justo, en su primer mugido,
      a quien lo modeló con lima dura,
      mugiendo con la voz del afligido;
      que aunque de bronce estaba fabricado,
      de dolor parecía estremecido;
      así el acento en llamas encerrado,
      con su rumor mezclaba su lenguaje,
      convertido en la queja del penado.
      Mas luego que hubo completado el viaje,
      la flamígera lengua, claramente,
      a una voz lastimera dio pasaje:
      «Tú, quien quiera que seas, ser clemente,
      que has dicho con el habla de lombardo:
      ¡Anda en -paz! ¡No te atizo, penitente!
      «Aunque me acerque a tí con paso tardo,
      mi voz escucha, por piedad te ruego:
      ya ves que quieto estoy, si en llamas ardo.
      «Si recién llegas a este mundo ciego,
      y acaso vienes de la dulce tierra
      de donde vine hasta el eterno fuego,
      «dime, si la Romana se halla en guerra:
      yo soy de la montaña, que en Urbino
      desprende el Tíber, cuyo valle encierra.»
      Escucho atento y la cabeza inclino,
      cuando mi guía, blando me amonesta,
      y me dice: «Habíale, que es un latino.»
      Yo que tenía pronta la respuesta,
      le respondí cuando callado se hubo:
      «Alma infeliz, a quien la llama tuesta,
      «la Romana, jamás en paz estuvo
      en el alma feroz de sus tiranos-,
      tiene la triste paz que de antes tuvo.
      «Los Polenta, cual siempre, soberanos,
      son de Bávena, y su águila atrevida
      con sus alas protege a los Cerbianos.
      «La tierra, que en su prueba sostenida,
      francos mató a montones, yace opresa,
      del verde león en garras, sometida.
      «El dogo viejo, y el que nuevo empieza,
      en Verrucchio, matando en desgobierno
      como a Montaña, siempre muerden presa.
      «Los pueblos de Lamorne y ele Santerno,
      rige el leoncillo azur en nido blanco,
      que bando cambia de verano a invierno.
      «La ciudad a que el Savio baña el flanco,
      que entre el llano y el monte está fundada,
      de opresión y licencia es campo franco.
      «Ora tu nombre di, tan apiadada,
      cual otras almas en martirio han sido,
      y sea tu memoria prolongada.»
      La llama ardiente despidió uti rugido,
      y su punta, cual lengua lanzó afuera,
      de aquí de allá, y habló como un soplido:
      «Si yo creyese, mi respuesta fuera
      dada a quien pueda retornar al mundo,
      inmóvil esta llama se estuviera;
      «mas como nadie, hundido en lo profundo
      de este valle, ha salido vivo y sano,
      sin temor a la infamia, lo> difundo.
      «Fui guerrero; después fui franciscano,
      con su cordón creyendo hacer enmienda;
      y cierto, mi creer no fuera vano,
      «si el grande sacerdote ¡Dios lo hienda!
      no me volviese a la primera culpa;
      y como fué, yo quiero se me entienda.
      «Mientras que forma fui de hueso y pulpa,
      que la madre me dio, la vida mía,
      no de león,. de zorro se la inculpa.
      «La torticera y encubierta vía,
      supe tan bien, que a fuer de mis amaños
      mi nombre por la tierra se extendía.
      «Cuando hube entrado en los maduros años,
      que la vela aferrar y atar el cable,
      hacen al hombre, tristes desengaños,
      «lo que antes me agradó, fué detestable;
      y contrito y confeso, mi deseo
      de remisión llenara ¡miserable!
      «El Príncipe del nuevo Fariseo,
      en gu~rra a inmediación de Lateranos,
      no con el Sarraceno y el Judeo;
      «que eran sus enemigos muy cristianos,
      pues ni uno, en Acre renegó su creencia,
      ni fuera mercader con egipcianos,
      «faltó a su fe llevado a la eminencia;
      no respetó el cordón, ni la pedestre
      orden santa, de ayuno y penitencia.
      «Cual Constantino demandó a Silvestre,
      para curar su lepra de Sorate,
      llamóme por mi mal, como maestre,
      «para curar su fiebre de combate:
      pidióme su consejo: hice desecha,
      porque ebrio parecióme aquel magnate,R
      «Luego dijo: Destierra la sospecha:
      si me enseñas, te absuelvo de antemano,
      como pueda a Penestra ver maltrecha,
      «Todo se abre y se cierra por mi mano,
      en los cielos, pues tengo las dos llaves,
      que mi predecesor tuvo en desgano.
      «Ante estos argumentos harto graves,
      pensé, que lo peor era callarme,
      y dije: ¡Oh, padre! pido que me la-ves


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      Mensaje por Maria Lua 26.03.23 8:56

      CANTO XXVIII



      [Canto XXVIII, nel quale tratta le qualitadi de la nona bolgia,
      dove l'auttore vide punire coloro che commisero scandali, e'
      seminatori di scisma e discordia e d'ogne altro male operare.]



      Chi poria mai pur con parole sciolte
      dicer del sangue e de le piaghe a pieno
      ch'i' ora vidi, per narrar più volte?
      Ogne lingua per certo verria meno
      per lo nostro sermone e per la mente
      c'hanno a tanto comprender poco seno.
      S'el s'aunasse ancor tutta la gente
      che già, in su la fortunata terra
      di Puglia, fu del suo sangue dolente
      per li Troiani e per la lunga guerra
      che de l'anella fé sì alte spoglie,
      come Livïo scrive, che non erra,
      con quella che sentio di colpi doglie
      per contastare a Ruberto Guiscardo;
      e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie
      a Ceperan, là dove fu bugiardo
      ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
      dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo;
      e qual forato suo membro e qual mozzo
      mostrasse, d'aequar sarebbe nulla
      il modo de la nona bolgia sozzo.
      Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
      com' io vidi un, così non si pertugia,
      rotto dal mento infin dove si trulla.
      Tra le gambe pendevan le minugia;
      la corata pareva e 'l tristo sacco
      che merda fa di quel che si trangugia.
      Mentre che tutto in lui veder m'attacco,
      guardommi e con le man s'aperse il petto,
      dicendo: «Or vedi com' io mi dilacco!
      vedi come storpiato è Mäometto!
      Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
      fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
      E tutti li altri che tu vedi qui,
      seminator di scandalo e di scisma
      fuor vivi, e però son fessi così.
      Un diavolo è qua dietro che n'accisma
      sì crudelmente, al taglio de la spada
      rimettendo ciascun di questa risma,
      quand' avem volta la dolente strada;
      però che le ferite son richiuse
      prima ch'altri dinanzi li rivada.
      Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse,
      forse per indugiar d'ire a la pena
      ch'è giudicata in su le tue accuse?».
      «Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena»,
      rispuose 'l mio maestro, «a tormentarlo;
      ma per dar lui esperïenza piena,
      a me, che morto son, convien menarlo
      per lo 'nferno qua giù di giro in giro;
      e quest' è ver così com' io ti parlo».
      Più fuor di cento che, quando l'udiro,
      s'arrestaron nel fosso a riguardarmi
      per maraviglia, oblïando il martiro.
      «Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi,
      tu che forse vedra' il sole in breve,
      s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,
      sì di vivanda, che stretta di neve
      non rechi la vittoria al Noarese,
      ch'altrimenti acquistar non saria leve».
      Poi che l'un piè per girsene sospese,
      Mäometto mi disse esta parola;
      indi a partirsi in terra lo distese.
      Un altro, che forata avea la gola
      e tronco 'l naso infin sotto le ciglia,
      e non avea mai ch'una orecchia sola,
      ristato a riguardar per maraviglia
      con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
      ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia,
      e disse: «O tu cui colpa non condanna
      e cu' io vidi su in terra latina,
      se troppa simiglianza non m'inganna,
      rimembriti di Pier da Medicina,
      se mai torni a veder lo dolce piano
      che da Vercelli a Marcabò dichina.
      E fa saper a' due miglior da Fano,
      a messer Guido e anco ad Angiolello,
      che, se l'antiveder qui non è vano,
      gittati saran fuor di lor vasello
      e mazzerati presso a la Cattolica
      per tradimento d'un tiranno fello.
      Tra l'isola di Cipri e di Maiolica
      non vide mai sì gran fallo Nettuno,
      non da pirate, non da gente argolica.
      Quel traditor che vede pur con l'uno,
      e tien la terra che tale qui meco
      vorrebbe di vedere esser digiuno,
      farà venirli a parlamento seco;
      poi farà sì, ch'al vento di Focara
      non sarà lor mestier voto né preco».
      E io a lui: «Dimostrami e dichiara,
      se vuo' ch'i' porti sù di te novella,
      chi è colui da la veduta amara».
      Allor puose la mano a la mascella
      d'un suo compagno e la bocca li aperse,
      gridando: «Questi è desso, e non favella.
      Questi, scacciato, il dubitar sommerse
      in Cesare, affermando che 'l fornito
      sempre con danno l'attender sofferse».
      Oh quanto mi pareva sbigottito
      con la lingua tagliata ne la strozza
      Curïo, ch'a dir fu così ardito!
      E un ch'avea l'una e l'altra man mozza,
      levando i moncherin per l'aura fosca,
      sì che 'l sangue facea la faccia sozza,
      gridò: «Ricordera'ti anche del Mosca,
      che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta",
      che fu mal seme per la gente tosca».
      E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;
      per ch'elli, accumulando duol con duolo,
      sen gio come persona trista e matta.
      Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
      e vidi cosa ch'io avrei paura,
      sanza più prova, di contarla solo;
      se non che coscïenza m'assicura,
      la buona compagnia che l'uom francheggia
      sotto l'asbergo del sentirsi pura.
      Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia,
      un busto sanza capo andar sì come
      andavan li altri de la trista greggia;
      e 'l capo tronco tenea per le chiome,
      pesol con mano a guisa di lanterna:
      e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».
      Di sé facea a sé stesso lucerna,
      ed eran due in uno e uno in due;
      com' esser può, quei sa che sì governa.
      Quando diritto al piè del ponte fue,
      levò 'l braccio alto con tutta la testa
      per appressarne le parole sue,
      che fuoro: «Or vedi la pena molesta,
      tu che, spirando, vai veggendo i morti:
      vedi s'alcuna è grande come questa.
      E perché tu di me novella porti,
      sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli
      che diedi al re giovane i ma' conforti.
      Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli;
      Achitofèl non fé più d'Absalone
      e di Davìd coi malvagi punzelli.
      Perch' io parti' così giunte persone,
      partito porto il mio cerebro, lasso!,
      dal suo principio ch'è in questo troncone.
      Così s'osserva in me lo contrapasso»





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      129


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      "Ser como un verso volando
      o un ciego soñando
      y en ese vuelo y en ese sueño
      compartir contigo sol y luna,
      siendo guardián en tu cielo
      y tren de tus ilusiones."
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      Dante Alighieri (1265-1321) - Página 3 Empty Re: Dante Alighieri (1265-1321)

      Mensaje por Maria Lua 14.04.23 9:08

      CANTO VIGESIMOCTAVO

      CIRCULO OCTAVO: FRAUDE

      ARO NONO: DISEMINADORES DE DISCORDIA
      MAIIOMA, FEA DOI.CINO, DA MEDICINA, O. MOSCA, DEL BOSNIO

      Invocación ;il lenguaje escrito y hablado. Evocación a los muertos.
      Noveno cerco donde son atormentados los cismáticos y promotores
      de discordias. Aparición de Mahoma y de Alí. Reminiscencia de
      Fray Dolcino. Las almais en pena de Pedro de Medicina, Curione
      V ol Mosca. Beltrán del Bornio, que lleva su cabeza en las manos
      a manera de una linterna con que se alumbra .


      ¿Quién podría, ni en voces no rimadas,
      decir la sangre y llagas que he mirado,
      y de lleno, dejarlas retrazadas?
      Todo idioma, sería muy menguado,
      porque a nuestra palabra y nuestras mentes,
      tanto en su seno comprender no es dado.
      Si se adunaran las extintas gentes,
      que de la Apulia, ia infelice tierra,
      bañaron con su sangre de dolientes.
      coa el romano, en prolongada guerra,
      que tanto anillo diera por despojos,
      cual dice Tito Livio, que no yerra; ,,
      si a ellas se uniesen, los que en sangre rojos,
      cayeron contrapuestos a Güiscardo,
      y los huesos, que aun miran nuestros ojos ,5
      en Ceperano, donde fué bigardo
      cada Pullense; y los de Tagliacozzo,
      donde inerme triunfara el viejo Alardo; 18
      cuando todos, en grupo lastimoso,
      presentan cada miembro mutilado,
      nada serían, ante el nono foso. 2l
      Jamás tonel sin duela o desfondado,
      vióse como uno allí, todo él abierto,
      desde la barba al vientre, el desdichado. »»
      Su corazón, se muestra a descubierto;
      sus intestinos cuelgan, y es su saco'
      de excrementos, depósito entreabierto. 2?
      Le seguía al través del aire opaco,
      y al mirarme exclamó, rasgando el pecho:
      «Ve como las entrañas me resaco. 30
      «Mira a Mahoma aquí, todo deshecho:
      más adelante, Alí sigue llorando,
      y su cabeza abierta es un desecho. 33
      «Y los otros que ves aquí girando,
      de escándalo y,de cisma sembradores,
      fueron en vida, y así están penando. 36
      «Un diablo se halla atrás, que en sus furores
      nos parte con el filo de su espada;
      renovando cruelmente los dolores sa
      CIR O VIII. ARO IX INF. XXVIII. 40-69 F E A DOLCIXO
      «en cada vuelta, a la doliente estrada;
      porque se cicatriza nuestra herida,
      antes de repasar la A'ía andada.
      «Mas ¿Qué haces tú, sobre esa roca erguida?
      ¿Tal vez retardas el suplicio airado,
      por la culpa en el mundo cometida?»
      «Aun no ha muerto, ni viene condenado,»
      dijo el maestro, «busca la experiencia,
      no el tormento que en lote te ha tocado.
      «Yo un muerto soy, y doíle mi asistencia,
      al recorrer los cercos tenebrosos:
      y como te hablo, es esto una evidencia.»
      Más de cien almas se alzan de los fosos,
      para mirarme como extraño caso,
      olvidando sus golpes dolorosos.
      Sigue Mahoma: «Pues que estás de paso,
      y vas a contemplar al sol en breve,
      di a fray Dolcino, si no quiere acaso
      «acompañarme, aquí, cuide la nieve,
      que la vitualla ataja, pues podría
      bien suceder, que el Novares la lleve.»
      Así Mahoma, al tiempo que partía,
      dejó de hablarme con la planta alzada,
      volviendo a andar por la doliente vía.
      Otro que trae la gola agujereada,
      cortada la nariz hasta la ceja,
      y que muestra una oreja mutilada,
      fijo me mira, pero no se queja
      como los otros, y abre su garguero,
      en chorro al destilar sangre bermeja.
      «i Oh!, tú que exento del tormento fiero,
      y en tierra conocí que fué latina,»
      dijo, «según de tu semblante infiero,
      «acuérdate de Pedro Medicina,
      si tornases a ver el dulce llano
      que de Vercello a Marcabó se inclina;
      «a los dos buenos únicos de Fano,
      y Ángiolelo, dirás, también a Guido,
      si el predecir aquí, no es un don vano,
      «que serán de un bajel desprevenido,
      arrojados al mar frente a Cattólica,
      dentro de un saco, por, tirano infido.
      «Entre la isla de Chipre y la Mayólica,
      nunca verá pirata igual Neptuno,
      tal crimen cometer en tierra Argólica.
      «El traidor, cuyos ojos ven con uno,
      en el país, que uno que está conmigo,
      no quisiera haber visto en tiempo alguno,
      «los llamará para tratar consigo,
      y hará tal, que ni el viento de Focara,
      ni las preces los pongan al abrigo.»
      Y yo a él: «Dime antes y declara,
      si he de ser de tus nuevas mensajero,
      jquién tan amarga vista no deseara?»
      La quijada empuñó; de un compañero,
      abrir la boca con sus manos le hizo,
      gritando: «Un mudo que mostrarte quiero.
      «Este exilado, a César indeciso,
      aliento dio al decirle.- Mucha espera,
      nos pierde sin salir del compromiso.»
      ¡Cuan consternada su apariencia era,
      con la lengua a raíz despedazada,
      de aquel Curión, que la movió tan fiera!
      Con una y otra mano mutilada,
      otro alzó sus muñones, y en luz hosca
      mostrándome su- cara ensangrentada,
      clamó: «¡ También acuérdate de Mosca!
      Yo fui quien dije: ¡Acabe lo empezado!
      germen de males de! la gente tosca.»
      «¡ Y muerte de tu raza!», dije airado.
      Y como loco que el dolor perturba,
      se fué con doble duelo acumulado.
      Quedé a mirar la condenada turba,
      y cosa vi que me causó pavura,
      y que el sólo contarla me conturba;
      mas la firme conciencia me asegura,
      como fiel compañera que da aliento
      bajo el albergue de una mente pura.
      Yo vi cierto, y lo veo en el momento,
      un busto sin cabeza ir caminando,
      en medio de aquel triste agrupamiento.
      La cabeza, del pelo iba colgando
      en sus manos, a modo de linterna,
      y: «¡Ay de mí!», exclamaba sollozando.
      De sí mismo era tétrica lucerna.
      ¡Y era, cual todo en uno o dos en una.. . !
      como fuera, no es fácil lo discierna.
      i Lo sabe Aquél que todo lo coaduna!
      Al pie del puente alzóse la cabeza,
      movió los labios de su boca bruna,
      Y di jome: «Contempla esta crudeza,
      tú que vivo visitas a, los muertos,
      que en nadie más que en mí la culpa pesa.
      «Para llevar de mí, comentos ciertos,
      que soy Bosnio Beltrán saber tú debes,
      que aconsejó al rey Juan en sus entuertos.
      «Al hijo y padre convertí en aleves,
      cual David y Absalón, tan fementido,
      que de Aquitóf el son las culpas leves.
      «Por dividir lo que se hallaba unido,
      tengo así dividida la cabeza,
      principio de este cuerpo amortecido;
      y culpa y pena así se contrapesa.»





      219


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      Dante Alighieri (1265-1321) - Página 3 Empty Re: Dante Alighieri (1265-1321)

      Mensaje por Maria Lua 19.04.23 14:57

      CANTO XXIX



      [Canto XXIX, ove tratta de la decima bolgia, dove si puniscono i
      falsi fabricatori di qualunque opera, e isgrida e riprende l'autore i
      Sanesi.]



      La molta gente e le diverse piaghe
      avean le luci mie sì inebrïate,
      che de lo stare a piangere eran vaghe.
      Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?
      perché la vista tua pur si soffolge
      là giù tra l'ombre triste smozzicate?
      Tu non hai fatto sì a l'altre bolge;
      pensa, se tu annoverar le credi,
      che miglia ventidue la valle volge.
      E già la luna è sotto i nostri piedi;
      lo tempo è poco omai che n'è concesso,
      e altro è da veder che tu non vedi».
      «Se tu avessi», rispuos' io appresso,
      «atteso a la cagion per ch'io guardava,
      forse m'avresti ancor lo star dimesso».
      Parte sen giva, e io retro li andava,
      lo duca, già faccendo la risposta,
      e soggiugnendo: «Dentro a quella cava
      dov' io tenea or li occhi sì a posta,
      credo ch'un spirto del mio sangue pianga
      la colpa che là giù cotanto costa».
      Allor disse 'l maestro: «Non si franga
      lo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello.
      Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;
      ch'io vidi lui a piè del ponticello
      mostrarti e minacciar forte col dito,
      e udi' 'l nominar Geri del Bello.
      Tu eri allor sì del tutto impedito
      sovra colui che già tenne Altaforte,
      che non guardasti in là, sì fu partito».
      «O duca mio, la vïolenta morte
      che non li è vendicata ancor», diss' io,
      «per alcun che de l'onta sia consorte,
      fece lui disdegnoso; ond' el sen gio
      sanza parlarmi, sì com' ïo estimo:
      e in ciò m'ha el fatto a sé più pio».
      Così parlammo infino al loco primo
      che de lo scoglio l'altra valle mostra,
      se più lume vi fosse, tutto ad imo.
      Quando noi fummo sor l'ultima chiostra
      di Malebolge, sì che i suoi conversi
      potean parere a la veduta nostra,
      lamenti saettaron me diversi,
      che di pietà ferrati avean li strali;
      ond' io li orecchi con le man copersi.
      Qual dolor fora, se de li spedali
      di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre
      e di Maremma e di Sardigna i mali
      fossero in una fossa tutti 'nsembre,
      tal era quivi, e tal puzzo n'usciva
      qual suol venir de le marcite membre.
      Noi discendemmo in su l'ultima riva
      del lungo scoglio, pur da man sinistra;
      e allor fu la mia vista più viva
      giù ver' lo fondo, la 've la ministra
      de l'alto Sire infallibil giustizia
      punisce i falsador che qui registra.
      Non credo ch'a veder maggior tristizia
      fosse in Egina il popol tutto infermo,
      quando fu l'aere sì pien di malizia,
      che li animali, infino al picciol vermo,
      cascaron tutti, e poi le genti antiche,
      secondo che i poeti hanno per fermo,
      si ristorar di seme di formiche;
      ch'era a veder per quella oscura valle
      languir li spirti per diverse biche.
      Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle
      l'un de l'altro giacea, e qual carpone
      si trasmutava per lo tristo calle.
      Passo passo andavam sanza sermone,
      guardando e ascoltando li ammalati,
      che non potean levar le lor persone.
      Io vidi due sedere a sé poggiati,
      com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
      dal capo al piè di schianze macolati;
      e non vidi già mai menare stregghia
      a ragazzo aspettato dal segnorso,
      né a colui che mal volontier vegghia,
      come ciascun menava spesso il morso
      de l'unghie sopra sé per la gran rabbia
      del pizzicor, che non ha più soccorso;
      e sì traevan giù l'unghie la scabbia,
      come coltel di scardova le scaglie
      o d'altro pesce che più larghe l'abbia.
      «O tu che con le dita ti dismaglie»,
      cominciò 'l duca mio a l'un di loro,
      «e che fai d'esse talvolta tanaglie,
      dinne s'alcun Latino è tra costoro
      che son quinc' entro, se l'unghia ti basti
      etternalmente a cotesto lavoro».
      «Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
      qui ambedue», rispuose l'un piangendo;
      «ma tu chi se' che di noi dimandasti?».
      E 'l duca disse: «I' son un che discendo
      con questo vivo giù di balzo in balzo,
      e di mostrar lo 'nferno a lui intendo».
      Allor si ruppe lo comun rincalzo;
      e tremando ciascuno a me si volse
      con altri che l'udiron di rimbalzo.
      Lo buon maestro a me tutto s'accolse,
      dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;
      e io incominciai, poscia ch'ei volse:
      «Se la vostra memoria non s'imboli
      nel primo mondo da l'umane menti,
      ma s'ella viva sotto molti soli,
      ditemi chi voi siete e di che genti;
      la vostra sconcia e fastidiosa pena
      di palesarvi a me non vi spaventi».
      «Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena»,
      rispuose l'un, «mi fé mettere al foco;
      ma quel per ch'io mori' qui non mi mena.
      Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco:
      "I' mi saprei levar per l'aere a volo";
      e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,
      volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo
      perch' io nol feci Dedalo, mi fece
      ardere a tal che l'avea per figliuolo.
      Ma ne l'ultima bolgia de le diece
      me per l'alchìmia che nel mondo usai
      dannò Minòs, a cui fallar non lece».
      E io dissi al poeta: «Or fu già mai
      gente sì vana come la sanese?
      Certo non la francesca sì d'assai!».
      Onde l'altro lebbroso, che m'intese,
      rispuose al detto mio: «Tra'mene Stricca
      che seppe far le temperate spese,
      e Niccolò che la costuma ricca
      del garofano prima discoverse
      ne l'orto dove tal seme s'appicca;
      e tra'ne la brigata in che disperse
      Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda,
      e l'Abbagliato suo senno proferse.
      Ma perché sappi chi sì ti seconda
      contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio,
      sì che la faccia mia ben ti risponda:
      sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio,
      che falsai li metalli con l'alchìmia;
      e te dee ricordar, se ben t'adocchio,
      com' io fui di natura buona scimia».




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      133


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      Dante Alighieri (1265-1321) - Página 3 Empty Re: Dante Alighieri (1265-1321)

      Mensaje por Maria Lua 19.04.23 15:01

      CANTO VIGESIMONONO


      CIRCULO OCTAVO: FRAUDE
      ARO NONO: DISEMINADORES DE DISCORDIA
      GEEI DEL BELLO
      ARO DÉCIMO: FALSARIOS DE TODO GENERO
      FALSIFICADORES DE METALES

      •'omparacion entre los grandes dolores de la tierra y del infierno. Al
      salir del noveno cerco, Dante entrevé a su pariente Geri del, Bello,
      que se esquiva ¡airado de su vista. Dialogo entre Virgilio y
      Dante. Los dos poetas entran en el décimo valle o foso del octavo círculo. Tormento de los falsificadores y de los alquimistas,
      devorados por llagas asquerosas. Coloquio de los dos poetáis con
      "tía sombra. El volador de Siena. Capocchio.


      Con tanta gente en llaga dolorida,
      mi vista estaba de dolor colmada,
      que tanta pena a lagrimar convida; 3
      mas Virgilio me dijo: «¿Tu mirada,
      por qué sigue tan fija, y tan ansiosa,
      en la sombra, a esa turba mutilada, „
      «que antes paseabas triste y vagarosa?
      Nadie contar sus almas se imagina,
      que millas veinte y dos mide su fosa. a
      107
      CIRO. TtlI. ARO IX IXl' \ XXIX. 10-39 DEL BELLO
      «Mas ya la luna a nuestros pies se inclina:
      corto es el tiempo que me está acordado,
      y hay más que ver en la mansión maligna.»
      «Si bien me hubieses antes observado,
      me dieras la razón», dije a mi guía,
      «y la partida un tanto retardado.»
      El entre tanto, su ágil pie movía,
      caminando, sin darme la respuesta,
      mientras yo continuaba: «En esta impía
      «mansión del duelo la mirada puesta,
      de mi sangre, un espíritu que llora
      pienso haber visto, y lo que culpa cuesta.»
      Dijo el maestro entonces: «Si deplora
      tu corazón la vista del doliente,
      mayor dolor verás: déjale ahora:
      «le he visto cuando estabas sobre el puente,
      que con desdén feroz te amenazaba,
      Geri-Bello, llamándole la gente.
      «Tu atención por entonces se fijaba,
      en el señor que fué del altofuerte,
      y no has visto al que al lado se esquivaba.»
      «Oh mi maestro, su violenta muerte,»
      le respondí, «que sin venganza yace,
      por los que oprobio parten con su suerte,
      «quizás motive su desdén, y le hace
      ocultarse de mí, como lo hacía,
      y más piedad del corazón me nace.»
      Así hablando los dos en compañía,
      11 gábamos del puente hasta la altura,
      do con más luz el valle se veía:
      y al penetrar a la última clausura
      de Malebolge, vimos ya cercanos
      los conversos de aquella negra hondura.
      Fuertes lamentos suben inhumanos,
      que lastiman con puntas aceradas;
      y el oído tapé con ambas manos.
      Valdechiana no vio nunca hacinadas
      de julio hasta setiembre, en hospitales,
      ni la Marisma y la Cerdeña aunadas,
      más miserias y pestes ni más males:
      tal era la infección que se exhalaba
      de los corruptos cuerpos infernales.
      Bajamos por el borde en que estribaba
      el largo puente, hacia la mano indiestra,
      donde la vista el valle dominaba.
      Y abajo vi, con su severa muestra,
      del Ser supremo el fallo justiciero,
      que da castigo a la maldad siniestra.
      No creo fuese el padecer más fiero,
      cuando de Egina el aire tan malsano
      postró doliente todo un pueblo entero,
      que desde el hombre al mísero gusano,
      todos murieron, y la antigua gente,
      según dan los poetas por certano,
      renovó con hormigas su simiente;
      y era de ver en esta oscura fosa
      languidecer por hatos, grey doliente.
      Quien sobre el vientre, quien de espalda posa;
      y unos sobre los otrcs se arrastraban
      a gatas por la vía dolorosa.


      Mudos los dos, las plantas nos llevaban,
      mirando y escuchando a los penados,
      que en vano erguir los cuerpos intentaban.
      A dos vi sobre el suelo, que adosados,
      cual una olla a otra junta se calienta,
      de pies a la cabeza lacerados
      no de un mancebo mano turbulenta
      mueve con más empeño la almohaza,
      ante el amo, que espera y se impacienta,
      cual un alma y la otra se ataraza
      con sus uñas, moviéndose rabiosas,
      sin alivio al ardor que las abrasa.
      Rascábanse las costras pustulosas,
      cual con cuchillo escámase el pescado,
      con uñas aceradas y filosas.
      Y hablando a un leproso condenado,
      dijo mi guía: «¡ Oh! tú, que te destrozas,
      y en tenazas tus manos has trocado,
      «dime si entre estas sombras dolorosas
      se encuentra algún latino; ¡y que 1? baste
      uña eterna a tus manos trabajosas!»
      «Latinos somos; en eterno guaste
      los dos estamos,» prorrumpió gimiendo.
      «Mas, ¿quién eres, que así lo demandaste?»
      Y el maestro: «Soy uno que desciendo
      con un vivo, de piedra en piedra dura,
      y mostrarle el infierno, bien entiendo.»
      Al oírle, rompieron su apretura,
      y trémulo cada uno me examina,
      con los otros que oyeron aventura.
      El maestro hacia mí, blando se inclina;
      miróme y dijo: «A tu sabor demanda.»
      Y hablé obediente a voluntad benigna:
      «¡Sea vuestra memoria memoranda
      en el humano mundo de la mente,
      y viva muchos soles y se expanda!
      «Decidme quiénes sois, y de qué gente,
      si vuestro mal y lastimosa pena,
      no lo impide, y habladme libremente.»
      «De Arezzo fui, donde Albero de Siena,»
      el uno dijo «asóme en vivo fuego;
      mas no es ésta la causa de mi pena.
      «Es verdad que una vez dije por juego,
      que volar por los aires yo podría,
      y él, de muy poco seso, y harto lego,
      «quiso le demostrase el arte mía,
      y porque no hice un Dédalo, a la hoguera
      me echó un obispo que por hijo había.
      «De las diez, a la fosa postrimera
      Minos me condenó, maguer mis preces,
      porque alquimista allá en el mundo fuera.»
      Dije al poeta: «Son estos sieneses,
      todos de natural tan vanidoso,
      como más no lo son ni los franceses.»
      A estas palabras que escuchó un leproso,
      me respondió: «Cierto es, menos Estrica,
      que fué en gastos tal vez parsimonioso;
      «y Nicolás, el que la usanza rica
      del jiroflé nos dio, que en país lejano
      su simiente nativa multiplica;
      «y la cuadrilla de Cación de Asciano,
      que viña y bosque disipó sin cuento;
      y Abbagliato que fué de juicio sano.
      «Y has de saber, que el que hace este comento
      contra el Sienes, y que tal vez te asombra,
      si bien miras, tendrás conocimiento
      «que en la tierra Capocchio se le nombra,
      falseador de metales por alquimia;
      y debes recordar al ver mi sombra,
      «que a natura imité con arte eximia.»





      225


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      o un ciego soñando
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      compartir contigo sol y luna,
      siendo guardián en tu cielo
      y tren de tus ilusiones."
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      Mensaje por Maria Lua 20.04.23 16:54

      CANTO XXX



      [Canto XXX, ove tratta di quella medesima materia e gente.]



      Nel tempo che Iunone era crucciata
      per Semelè contra 'l sangue tebano,
      come mostrò una e altra fïata,
      Atamante divenne tanto insano,
      che veggendo la moglie con due figli
      andar carcata da ciascuna mano,
      gridò: «Tendiam le reti, sì ch'io pigli
      la leonessa e ' leoncini al varco»;
      e poi distese i dispietati artigli,
      prendendo l'un ch'avea nome Learco,
      e rotollo e percosselo ad un sasso;
      e quella s'annegò con l'altro carco.
      E quando la fortuna volse in basso
      l'altezza de' Troian che tutto ardiva,
      sì che 'nsieme col regno il re fu casso,
      Ecuba trista, misera e cattiva,
      poscia che vide Polissena morta,
      e del suo Polidoro in su la riva
      del mar si fu la dolorosa accorta,
      forsennata latrò sì come cane;
      tanto il dolor le fé la mente torta.
      Ma né di Tebe furie né troiane
      si vider mäi in alcun tanto crude,
      non punger bestie, nonché membra umane,
      quant' io vidi in due ombre smorte e nude,
      che mordendo correvan di quel modo
      che 'l porco quando del porcil si schiude.
      L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo
      del collo l'assannò, sì che, tirando,
      grattar li fece il ventre al fondo sodo.
      E l'Aretin che rimase, tremando
      mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
      e va rabbioso altrui così conciando».
      «Oh», diss' io lui, «se l'altro non ti ficchi
      li denti a dosso, non ti sia fatica
      a dir chi è, pria che di qui si spicchi».
      Ed elli a me: «Quell' è l'anima antica
      di Mirra scellerata, che divenne
      al padre, fuor del dritto amore, amica.
      Questa a peccar con esso così venne,
      falsificando sé in altrui forma,
      come l'altro che là sen va, sostenne,
      per guadagnar la donna de la torma,
      falsificare in sé Buoso Donati,
      testando e dando al testamento norma».
      E poi che i due rabbiosi fuor passati
      sovra cu' io avea l'occhio tenuto,
      rivolsilo a guardar li altri mal nati.
      Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
      pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia
      tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.
      La grave idropesì, che sì dispaia
      le membra con l'omor che mal converte,
      che 'l viso non risponde a la ventraia,
      faceva lui tener le labbra aperte
      come l'etico fa, che per la sete
      l'un verso 'l mento e l'altro in sù rinverte.
      «O voi che sanz' alcuna pena siete,
      e non so io perché, nel mondo gramo»,
      diss' elli a noi, «guardate e attendete
      a la miseria del maestro Adamo;
      io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli,
      e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo.
      Li ruscelletti che d'i verdi colli
      del Casentin discendon giuso in Arno,
      faccendo i lor canali freddi e molli,
      sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
      ché l'imagine lor vie più m'asciuga
      che 'l male ond' io nel volto mi discarno.
      La rigida giustizia che mi fruga
      tragge cagion del loco ov' io peccai
      a metter più li miei sospiri in fuga.
      Ivi è Romena, là dov' io falsai
      la lega suggellata del Batista;
      per ch'io il corpo sù arso lasciai.
      Ma s'io vedessi qui l'anima trista
      di Guido o d'Alessandro o di lor frate,
      per Fonte Branda non darei la vista.
      Dentro c'è l'una già, se l'arrabbiate
      ombre che vanno intorno dicon vero;
      ma che mi val, c'ho le membra legate?
      S'io fossi pur di tanto ancor leggero
      ch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia,
      io sarei messo già per lo sentiero,
      cercando lui tra questa gente sconcia,
      con tutto ch'ella volge undici miglia,
      e men d'un mezzo di traverso non ci ha.
      Io son per lor tra sì fatta famiglia;
      e' m'indussero a batter li fiorini
      ch'avevan tre carati di mondiglia».
      E io a lui: «Chi son li due tapini
      che fumman come man bagnate 'l verno,
      giacendo stretti a' tuoi destri confini?».
      «Qui li trovai — e poi volta non dierno — »,
      rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
      e non credo che dieno in sempiterno.
      L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo;
      l'altr' è 'l falso Sinon greco di Troia:
      per febbre aguta gittan tanto leppo».
      E l'un di lor, che si recò a noia
      forse d'esser nomato sì oscuro,
      col pugno li percosse l'epa croia.
      Quella sonò come fosse un tamburo;
      e mastro Adamo li percosse il volto
      col braccio suo, che non parve men duro,
      dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto
      lo muover per le membra che son gravi,
      ho io il braccio a tal mestiere sciolto».
      Ond' ei rispuose: «Quando tu andavi
      al fuoco, non l'avei tu così presto;
      ma sì e più l'avei quando coniavi».
      E l'idropico: «Tu di' ver di questo:
      ma tu non fosti sì ver testimonio
      là 've del ver fosti a Troia richesto».
      «S'io dissi falso, e tu falsasti il conio»,
      disse Sinon; «e son qui per un fallo,
      e tu per più ch'alcun altro demonio!».
      «Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,
      rispuose quel ch'avëa infiata l'epa;
      «e sieti reo che tutto il mondo sallo!».
      «E te sia rea la sete onde ti crepa»,
      disse 'l Greco, «la lingua, e l'acqua marcia
      che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa!».
      Allora il monetier: «Così si squarcia
      la bocca tua per tuo mal come suole;
      ché, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia,
      tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole,
      e per leccar lo specchio di Narcisso,
      non vorresti a 'nvitar molte parole».
      Ad ascoltarli er' io del tutto fisso,
      quando 'l maestro mi disse: «Or pur mira,
      che per poco che teco non mi risso!».
      Quand' io 'l senti' a me parlar con ira,
      volsimi verso lui con tal vergogna,
      ch'ancor per la memoria mi si gira.
      Qual è colui che suo dannaggio sogna,
      che sognando desidera sognare,
      sì che quel ch'è, come non fosse, agogna,
      tal mi fec' io, non possendo parlare,
      che disïava scusarmi, e scusava
      me tuttavia, e nol mi credea fare.
      «Maggior difetto men vergogna lava»,
      disse 'l maestro, «che 'l tuo non è stato;
      però d'ogne trestizia ti disgrava.
      E fa ragion ch'io ti sia sempre allato,
      se più avvien che fortuna t'accoglia
      dove sien genti in simigliante piato:
      ché voler ciò udire è bassa voglia».





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      139


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      Dante Alighieri (1265-1321) - Página 3 Empty Re: Dante Alighieri (1265-1321)

      Mensaje por Maria Lua 30.04.23 8:20

      CANTO TRIGÉSIMO



      CIRCULO OCTAVO: FRAUDE
      ARO DÉCIMO: FALSARIOS DE TODO GENERO
      FALSIFICADORES DE PERSONAS, DE MONEDAS Y DE PALABKAS


      (.os males y sufrimientos en la tierr a y en el infierno. Continuación
      del último valle del octavo círculo. Otros falsificadores por trasmutación de la propia persona. Presa de una demencia furiusn
      Mirra. Juan Esquico. Un falsificador de moneda. Adán de Éresela. Los falsificadores de la' palabra . Disputa entre el hidrópico
      Adán de Brescia, y el griego Sinón devorado por la fiebre. Diálogo
      cutre los dos poetas en que Virgilio reprocha a Dante entretenerse
      en atender palabras soeces.


      En el tiempo en que Juno, despechada,
      con Semele! y la raza del tebano,
      mostróse como siempre malairada, 3
      Atamante tornóse tan insano,
      que al ver a sus dos hijos con su esposa,
      llevados cada uno de una mano, 8
      «¡A las redes!» gritó con voz furiosa.
      «¡ Leona y cachorros juntos he tomado!»
      Y cual zarpa tendió mano impiadosa... „
      Y a uno de ellos, que Learco era llamado,
      lo estrelló en una roca, furibundo,
      y ella se echó con otro al mar airado. ia
      Y cuando la fortuna, a lo profundo
      bajó a Troya tan alta y tan osada,
      y rey y reino se borró del mundo, 13
      y Hécuba, la cautiva desolada,
      después de ver a Polixena muerta,
      de Polidoro vio la faz amada, IS
      cadáver triste sobre playa yerta,
      y ladró como can, con pena insana
      oscura el alma y la razón desierta, n
      no la furia tebana y la troyana
      atormentara con más penas crudas
      los animales y la especie humana, 2i
      cual vi dos sombras pálidas, desnudas,
      correr, morder, cual del chiquero afuera,
      el puerco, con sus fauces colmilludas. ,7
      Una alcanza a Capocchio en su carrera,
      y al nudo de su cuello el diente hendiendo
      le hace barrer el suelo en ira fiera. r,o
      El Aretino, a golpe tan tremendo,
      «Este espíritu,» exclama-, «es Juan Esquico,
      que así rabioso a todos va mordiendo.» S a
      Y yo a él: «Decirme te suplico,
      cual sea la otra sombra vagarosa
      ¡y puedas preservarte de su hocico!... 3»
      Y él: «es esa la sombra crimosa
      de Mirra antigua, que el pudor violando,
      se enamora del padre, y que incestuosa S9
      «peca con él, su ser falsificando,
      porque en otra persona se transforma;
      como ese, que con ella va penando,
      «quien por yegua ganar de buena forma,
      Buoso Donati se llamó, doloso,
      por testamento en ajustada norma.»
      Luego que hubo pasado el par rabioso,
      que mantenía absorta la mirada,
      la extendí por el cerco doloroso,
      y a modo de laúd, mal conformada
      una sombra miré, que tal sería
      si la parte inferior fuese cortada.
      El humor de una grave hidropesía
      de su cuerpo los miembros deformaba,
      y a su rostro no el vientre respondía.
      De arriba abajo el labio se apartaba,
      cual la boca del ético, sedienta,
      desde la barba a la nariz temblaba.
      «Alma que estás de toda pena exenta,
      no sé por qué, del valle en el secuestro,>
      me dijo, «pasa y toma triste cuenta,
      «del pobre Adamo, mísero maestro:
      todo lo tuve, y hoy de agua una gota
      fuera más grata en mi penar siniestro.
      «El arroyo que el fresco valle acota,
      al descender del verde Casentino,
      y en el Arno sus aguas desagota,
      «ante mis ojos siempre me imagino,
      y su imagen risueña me deszuma
      más que el mal me descarna de contino.
      «La rígida justicia que me abruma,
      castígame por donde yo he pecado,
      y mi lamento se transforma en bruma.
      «En Romena, por mí falsificado
      fué el dinero sellado del Bautista;
      por ende, el cuerpo allí dejé quemado,
      «mas si viese que el alma aquí se atrista
      de Guido, de Alejandro, o de su hermano,
      por Fonte-Branda diera yo esa vista.
      «Uno ha venido ya o está cercano,
      si no miente la voz de esta morada,
      pero i ay! atado estoy de pies y mano.
      «Si en cien años, pudiese una pisada
      adelantar con cuerpo más ligero,
      me echaría a la vida condenada:
      «le buscaría en este valle fiero;
      bien que tenga once millas de circuito,
      y media de ancho mida por entero.
      «Por ellos sufro este dolor maldito;
      ellos me hicieron acuñar florines
      de tres quilates falsos, con delito.»
      «Te pido,» dije, «que a esos denomines,
      que cual la húmeda mano en el invierno
      humean de este valle en los confines.»
      «Allí los vi cuando bajé al infierno,»
      repuso, «y nunca, nunca se han movido:
      y así estarán por tiempo sempiterno.
      «Una mintió a Josefo y su marido.
      otro es Sinón en Troya mal famado:
      y es su vapor, su aliento corrompido.»
      Uno de aquellos dos, así tachado,
      golpeó con puño firme y avizoro
      del hidrópico Adamo el vientre inflado,
      que retumbó como tambor sonoro;
      pero, con mano por igual pujante,
      gritándole: «¡ Ni aun este oficio ignoro!»
      maltratóle furioso su semblante;
      y agregó: «Bien que me halle aquí tullido,
      mi brazo para tí, aun es bastante.»
      Y el otro replicó: «Cuando sumido
      te hallabas en las llamas, no tan presto
      eras, como al forjar, florín mentido.»
      Y el hidrópico dijo: «Cierto es esto;
      pero no fué tan fiel tu testimonio,
      cuando en Troya te fuera a tí requesto.»
      «Verdad: más no fué puro tu antimonio,»
      gritó Sinón: «si entonces he mentido,
      lo has hecho tú más que ningún demonio.»
      «Recuerda aquel caballo fementido,»
      repuso el otro, aquel de vientre hinchado,
      «reo por todo el mundo maldecido.»
      «Tú,» dijo el griego «eres el más penado;
      con panza inflada, y con la lengua s?ca,
      el mirarte y beber te está vedado.»
      Y el monedero: «Tu mentir te obceca,
      que si padezco sed y tengo humores,
      a tí fiebre maligna te reseca.
      «Es tu cabeza presa de dolores,
      y lamer el espejo de Narciso
      bien quisieras; .en medio a tus ardores.»
      La disputa escuchaba, y de improviso
      el buen maestro prorrumpió: «¡Pues, mira!
      ¡Que estoy por enojarme!» Yo indeciso,
      al escuchar aquel acento de ira,
      por tal vergüenza me sentí turbado,
      que todavía en mi memoria gira.
      Y como el que desgracias ha soñado,
      o aun soñando desea, que falsía
      sea lo que entre sueños ha mirado,
      tal yo también, que ni aun hablar podía,
      con palabras mi falta no excusaba,
      y me excusaba, y sin saber lo hacía.
      «Culpas más graves que la tuya lava,
      ese rubor» dijo el maestro amado,
      «de la virtud, que todo desagrava.
      «Y piensa que estaré siempre a tu lado
      si otra vez te encontrases con tal gente,
      que encuentre en semejante plato agrado;
      «que es bajeza el oírla sola
      mente.»



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      231


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      Dante Alighieri (1265-1321) - Página 3 Empty Re: Dante Alighieri (1265-1321)

      Mensaje por Maria Lua 02.05.23 13:10

      CANTO XXXI



      [Canto XXXI, ove tratta de' giganti che guardano il pozzo de
      l'inferno, ed è il nono cerchio.]



      Una medesma lingua pria mi morse,
      sì che mi tinse l'una e l'altra guancia,
      e poi la medicina mi riporse;
      così od' io che solea far la lancia
      d'Achille e del suo padre esser cagione
      prima di trista e poi di buona mancia.
      Noi demmo il dosso al misero vallone
      su per la ripa che 'l cinge dintorno,
      attraversando sanza alcun sermone.
      Quiv' era men che notte e men che giorno,
      sì che 'l viso m'andava innanzi poco;
      ma io senti' sonare un alto corno,
      tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco,
      che, contra sé la sua via seguitando,
      dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
      Dopo la dolorosa rotta, quando
      Carlo Magno perdé la santa gesta,
      non sonò sì terribilmente Orlando.
      Poco portäi in là volta la testa,
      che me parve veder molte alte torri;
      ond' io: «Maestro, dì, che terra è questa?».
      Ed elli a me: «Però che tu trascorri
      per le tenebre troppo da la lungi,
      avvien che poi nel maginare abborri.
      Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
      quanto 'l senso s'inganna di lontano;
      però alquanto più te stesso pungi».
      Poi caramente mi prese per mano
      e disse: «Pria che noi siam più avanti,
      acciò che 'l fatto men ti paia strano,
      sappi che non son torri, ma giganti,
      e son nel pozzo intorno da la ripa
      da l'umbilico in giuso tutti quanti».
      Come quando la nebbia si dissipa,
      lo sguardo a poco a poco raffigura
      ciò che cela 'l vapor che l'aere stipa,
      così forando l'aura grossa e scura,
      più e più appressando ver' la sponda,
      fuggiemi errore e crescémi paura;
      però che, come su la cerchia tonda
      Montereggion di torri si corona,
      così la proda che 'l pozzo circonda
      torreggiavan di mezza la persona
      li orribili giganti, cui minaccia
      Giove del cielo ancora quando tuona.
      E io scorgeva già d'alcun la faccia,
      le spalle e 'l petto e del ventre gran parte,
      e per le coste giù ambo le braccia.
      Natura certo, quando lasciò l'arte
      di sì fatti animali, assai fé bene
      per tòrre tali essecutori a Marte.
      E s'ella d'elefanti e di balene
      non si pente, chi guarda sottilmente,
      più giusta e più discreta la ne tene;
      ché dove l'argomento de la mente
      s'aggiugne al mal volere e a la possa,
      nessun riparo vi può far la gente.
      La faccia sua mi parea lunga e grossa
      come la pina di San Pietro a Roma,
      e a sua proporzione eran l'altre ossa;
      sì che la ripa, ch'era perizoma
      dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
      di sovra, che di giugnere a la chioma
      tre Frison s'averien dato mal vanto;
      però ch'i' ne vedea trenta gran palmi
      dal loco in giù dov' omo affibbia 'l manto.
      «Raphèl maì amècche zabì almi»,
      cominciò a gridar la fiera bocca,
      cui non si convenia più dolci salmi.
      E 'l duca mio ver' lui: «Anima sciocca,
      tienti col corno, e con quel ti disfoga
      quand' ira o altra passïon ti tocca!
      Cércati al collo, e troverai la soga
      che 'l tien legato, o anima confusa,
      e vedi lui che 'l gran petto ti doga».
      Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa;
      questi è Nembrotto per lo cui mal coto
      pur un linguaggio nel mondo non s'usa.
      Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
      ché così è a lui ciascun linguaggio
      come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto».
      Facemmo adunque più lungo vïaggio,
      vòlti a sinistra; e al trar d'un balestro
      trovammo l'altro assai più fero e maggio
      A cigner lui qual che fosse 'l maestro,
      non so io dir, ma el tenea soccinto
      dinanzi l'altro e dietro il braccio destro
      d'una catena che 'l tenea avvinto
      dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto
      si ravvolgëa infino al giro quinto.
      «Questo superbo volle esser esperto
      di sua potenza contra 'l sommo Giove»,
      disse 'l mio duca, «ond' elli ha cotal merto.
      Fïalte ha nome, e fece le gran prove
      quando i giganti fer paura a' dèi;
      le braccia ch'el menò, già mai non move».
      E io a lui: «S'esser puote, io vorrei
      che de lo smisurato Brïareo
      esperïenza avesser li occhi mei».
      Ond' ei rispuose: «Tu vedrai Anteo
      presso di qui che parla ed è disciolto,
      che ne porrà nel fondo d'ogne reo.
      Quel che tu vuo' veder, più là è molto
      ed è legato e fatto come questo,
      salvo che più feroce par nel volto».
      Non fu tremoto già tanto rubesto,
      che scotesse una torre così forte,
      come Fïalte a scuotersi fu presto.
      Allor temett' io più che mai la morte,
      e non v'era mestier più che la dotta,
      s'io non avessi viste le ritorte.
      Noi procedemmo più avante allotta,
      e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
      sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
      «O tu che ne la fortunata valle
      che fece Scipïon di gloria reda,
      quand' Anibàl co' suoi diede le spalle,
      recasti già mille leon per preda,
      e che, se fossi stato a l'alta guerra
      de' tuoi fratelli, ancor par che si creda
      ch'avrebber vinto i figli de la terra:
      mettine giù, e non ten vegna schifo,
      dove Cocito la freddura serra.
      Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
      questi può dar di quel che qui si brama;
      però ti china e non torcer lo grifo.
      Ancor ti può nel mondo render fama,
      ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta
      se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».
      Così disse 'l maestro; e quelli in fretta
      le man distese, e prese 'l duca mio,
      ond' Ercule sentì già grande stretta.
      Virgilio, quando prender si sentio,
      disse a me: «Fatti qua, sì ch'io ti prenda»;
      poi fece sì ch'un fascio era elli e io.
      Qual pare a riguardar la Carisenda
      sotto 'l chinato, quando un nuvol vada
      sovr' essa sì, ched ella incontro penda:
      tal parve Antëo a me che stava a bada
      di vederlo chinare, e fu tal ora
      ch'i' avrei voluto ir per altra strada.
      Ma lievemente al fondo che divora
      Lucifero con Giuda, ci sposò;
      né, sì chinato, lì fece dimora,
      e come albero in nave si levò.





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      141


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      "Ser como un verso volando
      o un ciego soñando
      y en ese vuelo y en ese sueño
      compartir contigo sol y luna,
      siendo guardián en tu cielo
      y tren de tus ilusiones."
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      Mensaje por Maria Lua 06.05.23 15:05

      CANTO TRIGESIMOPRIMERO
      DESCENSO AL CIRCULO NONO:
      LOS GIGANTES EN TORNO AL POZO
      NEMROD, EFIALTE, ANTEO




      I.a lengua de Virgilio y la lanza de Aqulles. Aparición de los titanes
      que levantan la mitad del cuerpo sobre la octava fosa, o valle a
      manera de torreones de fortaleza. Los dos poetas dan la espalda
      al octavo círculo, y se dirigen al pozo central del infierno que esta
      encima del noveno y conduce a él. Nemrod, Eflaltes y otros titanes. El gigante Anteo. Discurso de Virgilio suplicando a Anteo
      que los haga descender al noveno círculo. Anteo toma a Virgilio
      y Dante en sus brazos, y como un lío los hace descender al último
      abismo.


      La misma lengua que mordió enojosa
      y diónie de vergüenza la semblanza,
      la medicina me brindó piadosa; 3
      así cuentan curaba aquella lanza
      de Peleo y Aquiles al herido;
      de un lado dura y por el otro mansa. „
      Dejamos aquel valle dolorido,
      contorneando del cerco el alto muro,
      mudos y el pensamiento contenido. S)
      Era entre día y noche, un claro oscui*o,
      y en la sombra mi vista vacilaba,
      cuando un cuerno sonó, con son tan duro, 12
      que todo otro sonido sofocaba;
      y el oído la vista encaminando,
      atento a un sólo punto, concentraba. 15
      Tras de la rota dolorosa, cuando
      Carlomagno perdió la santa gesta,
      no tan terrible el cuerno de Rolando. 1S
      En mi camino, al revolver la testa,
      de muchas altas torres vi semejos,
      y al guía pregunté: «¿ Qué tierra es ésta f» 21
      Y respondió: «No puedes ver de lejos,
      y te ofuscan en medio a las tinieblas
      de lo que tú imaginas los reflejos. ;!
      «Lo que lejano con engaños pueblas,
      claro verás, estando más cercanos;
      apura el paso y pasarán las nieblas.» 2-,
      (Y dulcemente me tomó las manos) :
      «Antes que en esta vía te adelantes,
      y se disipen tus mirajes vanos, 3o
      «sabe que no son torres, son gigantes
      hundidos en la fosa, y esto explica
      que sus bustos se yergan arrogantes.» 33
      Como cuando la niebla se disipa,
      poco a poco la vista trasfigura
      lo que un denso vapor diversifica, 3n
      así, rompiendo densa bruma oscura,
      al acercarme al borde misterioso,
      huyó el engaño y vino la pavura; 39
      pues como en torno a muro poderoso,
      Montereggión, de torres se corona,
      así, el recinto que circunda el pozo;
      y así también, a medias la persona,
      se alza de los gigantes, que amenaza
      Júpiter con sus rayos, cuando atrona.
      Veo una faz que al muro sobrepasa,
      la espalda, el pecho y de su vientre parte,
      y a un lado y otro el brazo que rebasa.
      Hizo natura bien, dejando el arte
      de procrear tamaños animales,
      pues de tales soldados privó a Marte.
      Ballenas y elefantes dan señales,
      que si bien no del todo se arrepiente,
      aun en esto, sus juicios son cabales;
      porque si a la potencia de la mente
      se juntara la fuerza maliciosa,
      el hombre a resistir fuera impotente.
      Era larga la faz y era anchurosa,
      como la pina de San Pedro en Roma,
      y su armazón, en proporción huesosa.
      El muro, como túnica le toma
      medio cuerpo, y el resto, levantado
      de la cintura a la cabeza asoma;
      tres frisones, no hubieran alcanzado,
      pues treinta grandes palmos yo veía,
      adonde el hombre tiene el manto atado.
      «¡Rafele mai, amec zabí almia!»
      a gritar empezó la fiera boca,
      que allí no suena dulce salmodia.
      Increpóle el maestro: «Anima loca,
      sopla tu cuerno, y con su son desfoga
      la ira o la pasión que te sofoca.
      «En torno al cuello encontrarás la soga,
      que por siempre te amarra, alma confusa,
      y que cruzada al pecho, cruel te ahoga.»
      Y mirándome dijo: «A sí se acusa:
      este es Nemrod, que por su loca empresa,
      la misma lengua el mundo ya no usa.
      «No perdamos el tiempo, que interesa;
      porque el lenguaje que habla, nadie entiende,
      y ni él tampoco lo que el nuestro expresa.»
      El buen maestro su camino emprende;
      gira a izquierda, y a tiro de ballesta
      otro gigante desde el foso asciende.
      Quién con sus fuerzas su furor arresta,
      no podría decir; pero amarrados,
      ambos brazos robustos manifiesta,
      por cadena, de fierros muy pesados,
      que el cuerpo cinco veces le ceñía
      desde el cuello a los miembros empinados.
      «Este soberbio, tuvo la osadía
      de medirse con Jove, y en sí lleva
      merecido castigo,» dijo el guía.
      «Es Enaltes, que puesto a la gran prueba,
      con gigantes, los dioses espantara:
      no es fácil que sus brazos más remueva.»
      «Maestro», díjele, «yo deseara
      ver, si es posible, al colosal Briareo,
      y que su imagen por el ojo entrara.
      Y él a mí: «Vamos a ver a Anteo,
      cerca de aquí, y que habla y se halla suelto,
      y ha de bajarnos donde gime el reo.
      «El que tú quieres ver, se encuentra envuelto
      en cadenas, cual éste semejante,
      salvo el rostro feroz y más resuelto.»
      No trema el terremoto más pujante,
      . al sacudir el torreón más fuerte,
      como Enaltes se agita amenazante.
      Jamás miedo mayor sentí de muerte,
      y me la diera el pecho congojoso,
      a no saber que atado, estaba inerte.
      Seguimos a lo largo de aquel foso,
      donde Anteo, su busto levantado,
      cinco brazas afuera está alteroso..
      «¡ Oh tú! que en aquel valle afortunado,
      donde heredó Escipión eterna gloria,
      fué Aníbal y Cartago derrotado,
      «leones mil tuviste por memoria,
      ¡y que de haber estado tú en la guerra
      de tus hermanos, lauro de victoria
      «coronara a los hijos de la tierra!
      Bájanos hasta el hondo precipicio,
      donde el Cocito su frialdad encierra.
      «No nos dirijas a Tifón ni a Tizio;
      este que ves, dar puede lo que se ama,
      si te inclinas con gesto más propicio,
      *>* por el mundo pregonar tu fama,
      que vivo está y aun tiene vida larga
      i antes de tiempo el cielo no le llama.»
      Dijo Virgilio, y el gigante alarga
      presto, las manos que Hércules sintiera,
      y entre sus brazos al maestro carga.
      Virgilio que coger así se viera,
      di jome: «Haz de modo que te prenda.»
      Y de los dos Anteo un haz hiciera.
      Cual parece, al mirar a Carisenda
      bajo el declive, que una nube leve
      mueve en contra su fábrica estupenda,
      tal me parece Anteo, que se mueve
      al inclinarse, y cierto, que en tal hora
      quisiera andar por vía menos breve.
      Mas, levemente, al fondo que devora
      a Lucifer y Judas, nos llevó:
      doblegado un momento se demora,
      y cual mástil de nave se irguió.





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      Mensaje por Maria Lua 14.05.23 15:43

      CANTO XXXII


      [Canto XXXII, nel quale tratta de' traditori di loro schiatta e de'
      traditori de la loro patria, che sono nel pozzo de l'inferno.]


      S'ïo avessi le rime aspre e chiocce,
      come si converrebbe al tristo buco
      sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,
      io premerei di mio concetto il suco
      più pienamente; ma perch' io non l'abbo,
      non sanza tema a dicer mi conduco;
      ché non è impresa da pigliare a gabbo
      discriver fondo a tutto l'universo,
      né da lingua che chiami mamma o babbo.
      Ma quelle donne aiutino il mio verso
      ch'aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
      sì che dal fatto il dir non sia diverso.
      Oh sovra tutte mal creata plebe
      che stai nel loco onde parlare è duro,
      mei foste state qui pecore o zebe!
      Come noi fummo giù nel pozzo scuro
      sotto i piè del gigante assai più bassi,
      e io mirava ancora a l'alto muro,
      dicere udi'mi: «Guarda come passi:
      va sì, che tu non calchi con le piante
      le teste de' fratei miseri lassi».
      Per ch'io mi volsi, e vidimi davante
      e sotto i piedi un lago che per gelo
      avea di vetro e non d'acqua sembiante.
      Non fece al corso suo sì grosso velo
      di verno la Danoia in Osterlicchi,
      né Tanaï là sotto 'l freddo cielo,
      com' era quivi; che se Tambernicchi
      vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
      non avria pur da l'orlo fatto cricchi.
      E come a gracidar si sta la rana
      col muso fuor de l'acqua, quando sogna
      di spigolar sovente la villana,
      livide, insin là dove appar vergogna
      eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia,
      mettendo i denti in nota di cicogna.
      Ognuna in giù tenea volta la faccia;
      da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
      tra lor testimonianza si procaccia.
      Quand' io m'ebbi dintorno alquanto visto,
      volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti,
      che 'l pel del capo avieno insieme misto.
      «Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
      diss' io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
      e poi ch'ebber li visi a me eretti,
      li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli,
      gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse
      le lagrime tra essi e riserrolli.
      Con legno legno spranga mai non cinse
      forte così; ond' ei come due becchi
      cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
      E un ch'avea perduti ambo li orecchi
      per la freddura, pur col viso in giùe,
      disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?
      Se vuoi saper chi son cotesti due,
      la valle onde Bisenzo si dichina
      del padre loro Alberto e di lor fue.
      D'un corpo usciro; e tutta la Caina
      potrai cercare, e non troverai ombra
      degna più d'esser fitta in gelatina:
      non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra
      con esso un colpo per la man d'Artù;
      non Focaccia; non questi che m'ingombra
      col capo sì, ch'i' non veggio oltre più,
      e fu nomato Sassol Mascheroni;
      se tosco se', ben sai omai chi fu.
      E perché non mi metti in più sermoni,
      sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi;
      e aspetto Carlin che mi scagioni».
      Poscia vid' io mille visi cagnazzi
      fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
      e verrà sempre, de' gelati guazzi.
      E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo
      al quale ogne gravezza si rauna,
      e io tremava ne l'etterno rezzo;
      se voler fu o destino o fortuna,
      non so; ma, passeggiando tra le teste,
      forte percossi 'l piè nel viso ad una.
      Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?
      se tu non vieni a crescer la vendetta
      di Montaperti, perché mi moleste?».
      E io: «Maestro mio, or qui m'aspetta,
      sì ch'io esca d'un dubbio per costui;
      poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».
      Lo duca stette, e io dissi a colui
      che bestemmiava duramente ancora:
      «Qual se' tu che così rampogni altrui?».
      «Or tu chi se' che vai per l'Antenora,
      percotendo», rispuose, «altrui le gote,
      sì che, se fossi vivo, troppo fora?».
      «Vivo son io, e caro esser ti puote»,
      fu mia risposta, «se dimandi fama,
      ch'io metta il nome tuo tra l'altre note».
      Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
      Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
      ché mal sai lusingar per questa lama!».
      Allor lo presi per la cuticagna
      e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
      o che capel qui sù non ti rimagna».
      Ond' elli a me: «Perché tu mi dischiomi,
      né ti dirò ch'io sia, né mosterrolti
      se mille fiate in sul capo mi tomi».
      Io avea già i capelli in mano avvolti,
      e tratti glien' avea più d'una ciocca,
      latrando lui con li occhi in giù raccolti,
      quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
      non ti basta sonar con le mascelle,
      se tu non latri? qual diavol ti tocca?».
      «Omai», diss' io, «non vo' che più favelle,
      malvagio traditor; ch'a la tua onta
      io porterò di te vere novelle».
      «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
      ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
      di quel ch'ebbe or così la lingua pronta.
      El piange qui l'argento de' Franceschi:
      "Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
      là dove i peccatori stanno freschi".
      Se fossi domandato "Altri chi v'era?",
      tu hai dallato quel di Beccheria
      di cui segò Fiorenza la gorgiera.
      Gianni de' Soldanier credo che sia
      più là con Ganellone e Tebaldello,
      ch'aprì Faenza quando si dormia».
      Noi eravam partiti già da ello,
      ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
      sì che l'un capo a l'altro era cappello;
      e come 'l pan per fame si manduca,
      così 'l sovran li denti a l'altro pose
      là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:
      non altrimenti Tidëo si rose
      le tempie a Menalippo per disdegno,
      che quei faceva il teschio e l'altre cose.
      «O tu che mostri per sì bestial segno
      odio sovra colui che tu ti mangi,
      dimmi 'l perché», diss' io, «per tal convegno,
      che se tu a ragion di lui ti piangi,
      sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
      nel mondo suso ancora io te ne cangi,
      se quella con ch'io parlo non si secca
      »





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      "Ser como un verso volando
      o un ciego soñando
      y en ese vuelo y en ese sueño
      compartir contigo sol y luna,
      siendo guardián en tu cielo
      y tren de tus ilusiones."
      (Hánjel)





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      Dante Alighieri (1265-1321) - Página 3 Empty Re: Dante Alighieri (1265-1321)

      Mensaje por Maria Lua 17.05.23 18:03

      CANTO TRIGESIMOSEGUNDO

      CIRCULO NONO: TRAICIÓN

      ARO PRIMERO:

      CAINA: TRAIDORES A LOS PARIENTES
      MARGONA. PAZZI
      ARO SEGUNDO:
      ANTENORIA: TRAIDORES A LA PATRIA
      DEGLI ABATÍ, DA BUERA, UGOLINO Y RUGGKIlí


      Invocación a las vírgenes que ayudaron a Anfión a levantar los muros
      de Tebas. La raza maldita de los traidores. Entrada de los dos
      poetas al noveno y último círculo. Dante pisa en l a obscuridad
      con su pesado cuerpo de hombre vivo, las sombras de los condenados que se queja». Kl lago helado donde son atormentados los
      traidores enterrados desde el cuello hasta los pies. La Antenoria,
      una de las cuatro comparticiones del noveno círculo, que son la
      Caína, la, Judaeca, la Antenoria y la Tolomea. Suplicio y enumeración de los traidores a la patria, que penan en el hielo. Al en-
      ' ' * i la región Tolomea, Dante ve asomar dos cabezas sobre el
      hielo, una de las cuales devora la otra .



      Si tuviese una rima áspera y bronca,
      como a este triste foso convendría,
      que sustenta las rocas con que entronca, a
      yo el jugo de mi mente exprimiría
      mas plenamente; pero no me alabo,
      Pues con temor doy suelta a mi osadía. 6
      Empresa,fácil no es, llevar a cabo
      lo más hondo explicar del universo,
      ni es de lengua que aun dice mamma y babbo. „
      Ayuda, como Anfión, pide mi verso,
      a las donas de Tebas fundadoras.
      ¡ No sea el hecho y el decir diverso!
      Plebe vil, entre razas malhechoras,
      ¡ mejor que ser de lo que hablar es duro,
      fuerais cabras y ovejas baladoras!
      Así que entramos en el pozo oscuro,
      a los pies del gigante desdoblado,
      miré la altura del soberbio muro.
      Clamó una voz quejosa: «¡Ay! ¡ten cuidado!
      ¡Y no maltrates con tu planta impía,
      la frente de un hermano desdichado!»
      Volví los ojos do la voz salía,
      y un lago vi, que convertido en hielo,
      más que de agua, de vidrio parecía.
      Nunca en invierno, más espeso velo
      cubrió en Austria el Danubio congelado,
      ni vio el Tañáis bajo su frío cielo,
      como el que vi, que a haberse derrumbado
      sobre él Apuana y Tabernieh unidos,
      sus orillas ni un ¡cricch! hubieran dado.
      Como la rana lanza sus graznidos
      con el hocico fuera, cuando sueña
      la espigadera frutos más crecidos;
      lívidas, de vergüenza el rostro enseña
      yacen las sombras en el lago helado,
      batiendo el diente a modo de cigüeña.
      Su rostro hacia los suelos inclinado,
      su boca fría y su mirar transido,
      dan testimonio de su triste estado.
      Cuando la vista en torno hube corrido,
      miré a mis pies, y vi dos condenados
      el pelo de uno y otro confundido. 42
      «¿Quiénes sois los de pechos apretados!»
      pregunto, y ellos alzan sus semblantes,
      y a mí tuercen los cuellos doblegados. I6
      En sus ojos, que blandos ei*an antes,
      al asomar la lágrima se cuaja,
      y se cierran, de hielo semejantes. 4g
      Cual leño a leño ciñe férrea faja,
      así los dos, revueltas sus guedejas,
      cual cabras topan con la frente baja. S1
      Uno de ellos, perdidas las orejas
      por el frío, pregunta, el rostro yerto:
      «¿Por qué en nosotros tu mirada espejas? ,4
      «Quiénes son esos dos, sabrás de cierto:
      donde Bisenzio su corriente inclina,
      fueron señores con su padre Alberto. 37
      «Hijos son de una madre; en la Caína
      que ora atraviesas, no hay sombra malvada
      que más merezca estar en gelatina; s0
      «ni el que Arturo rompió de una lanzada,
      cuerpo y sombra de un golpe traspasado,
      ni Focaccio, ni esa otra condenada 03
      cuya testa mi vista ha interceptado,
      y Sassol Mascheroni se llamaba:
      si eres toscano, ya te lo he mentado. 80
      «Pocas palabras, y el sermón acaba.
      Fui Camición de Pazzi, y aquí espío
      a Carlín, que descargue mi alma prava.» 69
      Después, amoratados por el frío
      vi rostros mil, que aun miro tiritando,
      presente siempre aquel helado río;
      y mientras vamos hacia el pozo andando,
      donde el peso del mundo se coaduna,
      y entre el eterno frío iba temblando,
      no sé, si por destino o por fortuna,
      marchando entre cabezas condenadas,
      golpeó mi pie con el semblante a una,
      que llorando gritó: «Si tus pisadas
      no son de Mont' Aperti la venganza,
      ¿por qué así me maltratan despiadadas!»
      Dije al maestro: «Para nuestra andanza;
      quiero salir de dudas, que en seguida
      haré cuanto me dicte tu templanza.»
      Paróse el guía, y dije a la dolida
      sombra, que horrible blasfemaba ora:
      «¿Quién eres tú de boca maldecida!»
      «¿Y tú quien?», replicó, «que en la Antenora
      golpeando vas los rostros duramente,
      cual un vivo, con planta pesadora?»
      Y respondí: «ir
      o soy un ser viviente,
      y si grata te puede ser la fama,
      quizás tu nombre entre los otros cuente.»
      «¡Por lo contrario mi miseria clama!»
      replicó, «y eres tú mal lisonjero
      al aumentar mi pena en esta lama.»
      Así el cabello de aquel ser tan fiero,
      diciéndole: «Tu' nombre me confiesa,
      o te pelo y repelo todo entero.»
      «Puedes,» dice, «pelarme con franqueza;
      no te diré mi nombre, y te lo juro,
      aunque estrujes mil veces mi cabeza.»
      De una mecha bien firme le aseguro,
      y empezaba a pelarle ya la coca,
      en tanto que él ladraba su conjuro.
      Mas uno grita: «¿ Qué te pasa, Bocea ?
      ¿No te basta que suene tu quijada,
      que aun ladras? ¿Qué demonio el que te aloca?»
      «Ora, tu confesión es excusada,
      traidor» le dije, «queda con tu afrenta;
      de tí daré noticia no falseada.»
      «Vete,» repuso, «y lo que quieras cuenta,
      mas no olvides decir, que al lado mora
      el que su lengua puso a retroventa,
      «y aun el dinero del francés deplora.
      Llorar he visto a Buoso de Duara,
      do helada está la turba pecadora.
      «Y si alguno por otro demandara,
      a Becchería tienes a tu lado.
      a quien Florencia el cuello le segara.
      «Soldanier más allá, creo enterrado,
      con Ganello, y Tribaldo, traicionero
      que entregara a Paenza al sueño dado.»
      Más lejos vimos, en glacial ahujero,
      de dos sombras heladas la cabeza,
      que la una de la otra era sombrero.
      Como el hambriento muerde el pan apriesa,
      así hundía su diente un condenado
      en la nuca del otro que era presa.
      Cual Tideo, de rabia trasportado
      de Menalipo devoró la frente,
      así roía el cráneo descarnado.
      «¡Oh!, tú,» le dije, «que con fiero diente
      muerdes una cabeza ya reseca,
      ¿cuál es el odio que tu pecho siente?
      «Si no es bestialidad la que te obceca,
      di quién eres. ¿Por qué tan iracundo?
      Si la lengua con que hablo no se seca,
      la razón que tú tengas diré al mundo.»





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      o un ciego soñando
      y en ese vuelo y en ese sueño
      compartir contigo sol y luna,
      siendo guardián en tu cielo
      y tren de tus ilusiones."
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